Un sabato sera a cena, una tavolata lunga, svariate bottiglie e bicchieri che tintinnano, si parla dell’ultima partita, ci si prende in giro per quel tiro sbilenco. Metà delle persone a quel tavolo sono su una carrozzina. Ma bisogna farci caso per accorgersene. Perché i discorsi, le risate, gli scherzi al più pasticcione del gruppo e i baci tra le coppiette, mica hanno un sapore diverso. Non sono marchiati. Come in quella pubblicità degli Anni 80 contro l’Aids.
Le persone disabili possono essere felici?
Dilemma filosofico. La risposta dovrebbe essere una sola, senza neppure pensarci (sì). Invece quando si parla di disabilità, diventiamo tutti psicologi. Tanti Raffale Morelli, pronti a scavare nelle pieghe dell’animo umano, soprattutto a caccia di scheletri. Dopo aver inaugurato questa rubrica di sconcerie con la regina delle parolacce (diversamente abile), questa volta lasciamo il nazional popolare per addentrarci nella selva oscura.
AFFLITTO
Se una persona è disabile, è per forza triste. Questa equivalenza è un automatismo: “Visto che non è come me, sarà infelice”. Come se ogni persona normodotata “vivesse col sole in fronte”, per dirla alla Pavarotti. Si genera quindi – spesso – un binomio compassionevole tra le parole “afflitto” e “disabilità”.
Occorre scardinare questa falsa credenza. Il dolore appartiene a tutti, in misura non proporzionata alla disabilità. Una persona disabile non deve essere necessariamente vista o considerata come afflitta da qualcosa; certo, convive con una disabilità, cosa che può procurare più o meno logorio interiore. Ma non preclude la felicità.
Quel sabato sera, dopo una cena vagamente alcolica e spensierata, molti di quei ragazzi si sono buttati in pista, a tarda notte, in una discoteca milanese. Afflitti lo saranno stati forse quando, alla chiusura del locale, sono stati costretti a tornare a casa.